Tre quadri, due prologhi e un intermezzo per il Doktor Faust (al Maggio Musicale Fiorentino) di Ferruccio Busoni nella versione completata da Philipp Jarnach. Un’opera monumentale e per alcuni un capolavoro. La recensione di Fulvio Venturi
di FULVIO VENTURI
(Doktor Faust al Maggio Musicale Fiorentino)
Ferruccio Busoni, “natura faustiana”, per sua stessa definizione iniziò a concepire un’opera sul soggetto di Faust già nel 1906. Ritenendo troppo vasta la materia di Goethe cercò altre fonti d’ispirazione in The Tragical History of Doctor Faust del Christopher Marlowe più tardo e come egli stesso ci dice nel prologo parlato della sua opera, le trovò in alcune storie del teatro popolare delle marionette, né trascurò di vagliare con l’imprescindibile D’Annunzio di quegli anni, si era nel 1911, la possibilità di calare nelle vicende di Faust la proteiforme figura di Leonardo. Questa ipotesi non fu poi attuata, ma ovviamente la lunga genesi, stesura del libretto inclusa, prese gran tempo e, al fatale ultimo giro d’orologio, registrato nel 1924, Ferruccio Busoni questo Doktor Faust non lo aveva ancora terminato. All’officio del completamento provvide Philipp Jarnach, allievo di Busoni medesimo e nel 1925 l’opera fu eseguita a Dresda sotto la direzione di Fritz Busch. Ma al pari di altre opere rimaste incompiute non possiamo dire che la vicenda editoriale di Doktor Faust si sia conclusa con la prima rappresentazione. Negli ultimi anni del Novecento Anthony Beaumont, infatti, dopo il ritrovamento di alcuni appunti busoniani, ha provveduto ad una nuova composizione delle parti mancanti.
Il Doktor Faust è un operone monumentale, – tre quadri, due prologhi e un intermezzo – con un flusso musicale continuo e una tensione interna che si taglia col coltello. Molti lo definiscono capolavoro, e mi pare che tale appellativo, per quanto abusato, ci stia tutto. La partitura dispone di magnifiche pagine sinfoniche degne di vita autonoma, dispiegamento totale di scienza compositiva, emozione e logica (non lo si legga come ossimoro) in ogni pagina. Nondimeno, ove si conosca la musica anche pianistica di Busoni, ad esempio, si saprà pure che l’empolese-teutonico non amava proprio la leggerezza.
Diciamola tutta, la scena del secondo prologo, quella dell’affabulazione satanica, l’alternarsi delle voci celesti e maligne, il drammatico dialogo fra Faust e Mephistopheles, il contratto stroncherebbero un cavallo e talvolta si auspicherebbe un “top! È già fatto” qualunque. Poi l’opera si distende, la sua teatralità prende quota e giunge ad uno dei finali più belli e interrogativi che io conosca. Ma se ti distrai un attimo, è fatale, ti ritrovi nella terra di nessuno.
Davide Livermore (scene Giò Forma, costumi Mariana Fracasso, luci Fiammetta Baldiserri, video D-Wok) forse ha colto le stesse sensazioni e nello spettacolo ha alternato logica ed ironia. Di grande intelligenza la trovata di collocare ovunque, in ogni personaggio, il volto di Ferruccio Busoni. Doktor Faust è opera autobiografica, se mai ce fosse una, e al tempo stesso si trova il modo di sorridere almeno sarcasticamente. Parimenti il Belzebù che esce dal pianoforte mentre Faust-Busoni affascina l’uditorio con la sua virtù esecutiva ha conquistato anche noi e così quel lungo coito di Princisbecco con la pronuba Duchessina, fra sogno e realtà, aveva forza e (dis)misura insieme. Altrove sono arrivati, dal carrozzino che Mephistofeles incendia bambino annesso, ai rossi infernali che si spandevano ovunque, dal nudo incedere proiettato della crocifissa Elena, alla preghiera negata a Faust con il cadaverino infantile in braccio, i giusti pugni nello stomaco. Non saprei dire se dal finale di quest’opera giunga speranza, redenzione, o negazione. Per me sia l’una che le altre rimangono prigioniere della mente, ma sicuramente con la figura di quell’adolescente che cammina nella neve sono arrivate purezza e poesia.
Bella boccia, Livermore.
Dal lato musicale, scelta unicamente la versione Jarnach e forse si poteva fare di meglio, tutto ha ruotato attorno alla bacchetta di Cornelius Meister. L’ancor giovane direttore (nato nel 1980), noto soprattutto per la qualificata collaborazione con Dresda e con Toulouse, nonché per l’impegno sulla musica di Wagner e del Primo Novecento, ha tenuto in mano l’onerosa partitura ed il popolato palcoscenico con gran perizia, sempre anch’egli logico e asciutto. Forse si poteva tentare di alleggerire il muro sonoro specie nel monolitico secondo prologo: il povero Faust che canta dall’inizio alla fine nella parte forse più spossante mai composta per voce umana si sentiva poco, ma tant’è. Ed è pur vero che l’orchestra ha suonato benissimo.
E da quel muro sonoro passiamo a parlare dei cantanti.
Come protagonista è stato scelto l’esperto baritono Dietrich Henschel.
“Almeno la sa” ha commentato Elvio Giudici, a sua volta mio imprescindibile Virgilio in questo viaggio faustiano, allundendo anche al fatto che Henschel abbia inciso la parte in una celebre edizione discografica diretta da Nagano, ma i bei dì di giovinezza sono fuggiti e la sua voce è ridotta al lumicino. Il tenore Daniel Brenna, invece, come Mefistopheles di voce ne ha fin troppa e tutta d’un pezzo, ove la parte, ora melliflua, ora graffiante, richiederebbe una timbrica più sfumata, più insinuante ed aligere impennate verso l’acuto. Ne ha risentito soprattutto quella famosa scena tutta arroccata in un pesante declamato poco compenetrato con il substrato orchestrale. Henschel, per tornare a lui, ha avuto buoni momenti interpretativi nel disperato finale, ma la voce lo ha sorretto proprio poco. Insomma dai protagonisti non è venuto granché. Leggermente meglio, ma senza scialare, la Herzogin di Olga Bezsmertna, così il migliore del cast è risultato il giovane tenore Joseph Dahdah, dotato di una voce fresca e gradevole nel doppio ruolo del Soldato e del Duca di Parma. Non male il basso Wilhelm Schwinghammer nei panni del pedissequo e infido Wagner. Il coro chiamato ad una prova musicalmente assai complicata specie nella sezione maschile se l’è cavata con il consueto onore. Non avrebbe guastato una maggiore flessibilità durante la disputa filosofica nella taverna di Wittenberg (che ricorda la zuffa delle confessioni al Concilio di Trento in Palestrina di Pfitzner), ma un po’ tutta la lettura dell’opera ci è parsa andare più verso la compattezza che il dissolvimento della materia.
A posto le parti “di fianco” e i figuranti speciali.
Comunque sia, serata memorabile e una riflessione. Quest’opera è difficile da eseguire e da ascoltare, ma è anche facile da godere a cervello aperto (per non dire delle orecchie). Potrebbe essere eseguita di più.
Applausoni al termine e pubblico numeroso (forse con un’offerta per gl’innamorati di San Valentino), ma anche visibili defezioni nell’intervallo.