SPECIALE MASCAGNI / 2. Mascagni e Livorno, tra affetto e qualche “veleno” (articolo di Fulvio Venturi)
Ma qual era il rapporto di Pietro Mascagni con la sua città? Qual era il vero carattere del compositore? Ecco un articolo di approfondimento di Fulvio Venturi, scrittore e critico musicale, studioso del compositore sul quale ha pubblicato numerosi libri.
di Fulvio Venturi
Amoroso, c’è un solo termine che possa descrivere il rapporto fra Pietro Mascagni e Livorno, la sua città natale, e questo termine è appunto amoroso. Grande affetto, grandi esecuzioni musicali, produzioni operistiche con celebri cantanti e una devozione, un seguito popolare che anche dopo la morte del compositore ha continuato a manifestarsi. Ma credete che il rapporto fra una città sanguigna come Livorno ed un livornese autentico, estroverso e geniale, pletorico per alcuni versi, come Mascagni, pur animato da amorosi sensi, sia sempre filato via liscio?
Ma no, questo non sarebbe stato possibile. All’interno delle mille memorabili serate, delle innumerevoli produzioni di Cavalleria rusticana, Guglielmo Ratcliff, Silvano, Zanetto, Iris, Le Maschere, Isabeau, Parisina, Lodoletta, Nerone, spesso capitanate dal loro autore, talvolta si è annidato qualche veleno, qualche sapido fatto di cronaca che ci pare divertente rievocare.
Iniziamo da Cavalleria rusticana. Agosto 1890, la prima volta di Cavalleria rusticana a Livorno (nella foto a lato in basso, il pianoforte di Cavalleria rusticana conservato al teatro Goldoni di Livorno). Mascagni, che molti ancora a Livorno chiamavano “Pietrino”, ha conquistato la celebrità e tutti vogliono ascoltare la sua opera che tanta meraviglia ha destato due mesi prima a Roma. Teatro stracolmo e grandi interpreti: Roberto Stagno, Gemma Bellincioni, il direttore Leopoldo Mugnone e un baritono, pure livornese, che farà tanta strada fino a diventare il cantante delle regine, Mario Ancona. L’esito delle rappresentazioni fu festoso al pari della curiosità e delle aspettative che le precedettero, Cavalleria rusticana fu replicata al Goldoni per cinque serate tra l’entusiasmo generale, molte persone illustri, esponenti del mondo musicale italiano ed internazionale, della politica, s’avvicendarono in teatro durante le rappresentazioni. Tuttavia qualcosa nell’organizzazione non marciò a dovere e la stessa Gemma Bellincioni si fece cronista di fatti imprevisti. E che cronista, leggete:
“[…] Ogni sera il teatro rigurgitava di spettatori, treni espressi venivano dalla provincia, banchetti, luminarie, feste in onore del Maestro, ecc. E un fatto forse più unico che raro nelle cronache teatrali, fu quello d’una rappresentazione dovuta sospendere… per troppo pubblico. I prezzi erano alti per quell’epoca, 25 lire le poltrone, 100 lire i palchi; quindi non potevano essere all’unisono con le tasche di tutta la popolazione livornese che ardeva dal desiderio di udire Cavalleria. Il Comune, d’accordo con il Comitato dell’Impresa, decise di dare un’unica rappresentazione a prezzi popolari, onde soddisfare il giusto desiderio della popolazione; ma i bagarini (molto in voga allora), con un colpo di mano audace, comprarono tutto il teatro il giorno prima, in modo che quando il pubblico si presentò allo sportello per prendere i posti, aveva la sola consolazione di leggere il «tutto esaurito», mentre fuori i bagarini offrivano i posti, ma a prezzi triplicati di quelli ch’erano sul cartello. Successe un putiferio… i livornesi non sono facili a lasciarsi gabbare; … compresero il tiro birbone degli speculatori e cominciarono a strepitare, a urlare, a rompere vetri, minacciando di buoni cazzotti toscani i poveri componenti il Comitato dell’Impresa… Dovette correre la forza pubblica per calmare gli animi esasperati, e la rappresentazione venne sospesa. […]”. (Gemma Bellincioni, Io e il Palcoscenico, Milano 1920, pagg. 105/106).
Cazzotti toscani! Già, qualche volta Mascagni ci andò vicino davvero, come nel 1899, quando una magnifica produzione di Iris, e sarebbe stata la prima per Livorno, abortì per il rifiuto dei palchettisti del Goldoni. Corsero parole grosse. Oppure nel 1908, quando uno sconsiderato “claquer”, deluso dalla magra cifra raccolta per la sua prestazione, fece volare dal loggione un cesto pieno di ravanelli, cipolle e ortaggi vari all’indirizzo di Tina Poli Randacio, la prima donna che stava cantando nelle Maschere sotto la direzione di Mascagni. Riconosciuto dalla forza pubblica, il giovane fu messo fuori dal teatro. “Hanno fatto male. Dovevano metterlo dentro,” fu il commento di Mascagni…
Ancora qualche anno, il 1913. Isabeau al Teatro Goldoni. Mascagni che si trova a Milano, viene a sapere che le rappresentazioni si starebbero svolgendo a teatro semivuoto e, inviperito, parte dalla città lombarda e giunge a Livorno per constatare, ma trova una folla plaudente ed entusiasta. A furor di popolo dovrà dirigere due recite della sua opera. Ancora Isabeau e si giunge al 1928. Questa è carina. Mascagni dirige, ma fra i cantanti niente funziona. Prima si ammala il soprano, poi si ammala il tenore. La seconda recita termina con Mascagni che canta dal podio con il suo celebre falsettone per aiutare i suoi interpreti in difficoltà. Bene, terza recita, cantanti nuovi. Tutto a posto. Pietro Mascagni, tuttavia, dirige con un bel corno rosso nel taschino del candido gilet nido d’ape del suo frac e ogni tanto gli dà una toccatina. “Non si sa mai”, pare che abbia commentato in camerino fra un intervallo e l’altro.
Per correttezza dovremmo citare almeno di passata le innumerevoli volte in cui le cose andarono lisce, ma sarebbe forse meno divertente. E ci vorrebbe un libro. Diremo solo che nel 1931, in occasione della produzione delle Maschere con orchestra e coro interamente livornesi, l’entusiasmo tocca le stelle. Mascagni si fa fotografare fra gli esecutori, rilascia attestati di stima. Uno in particolare alla valorosa Corale “Guido Monaco” che tanta parte ha avuto nel travolgente successo di quelle serate.
Passano quattro anni, agosto 1935, e al Goldoni si allestisce Nerone. Mascagni, ad onta dei suoi settantadue anni, sfoggia una vigoria da far invidia a un trentenne. All’inizio del mese è a Szeged per dirigere Cavalleria, poi torna e senza por tempo in mezzo si mette a lavorare a Nerone. Ora, il palcoscenico del Goldoni è sghembo da una parte e l’allestimento scaligero di Pericle Ansaldo non può entrarci tutto. Così chiama Camillo Parravicini, un giovane scenografo dal grande avvenire, e si fa preparare delle scene di carta. Ok, tutto a posto. Il conto della spesa lievita un po’, ma fa nulla. Compagnia di canto sontuosa: Pertile, Bruna Rasa, Carosio, Granforte. Per il coro, tanto importante in Nerone, c’è la Guido Monaco, quella delle Maschere con il suo formidabile direttore Roberto Zucchi. Si può dormire tranquilli. E invece no. Serpeggia qualche scontento. Per le signore del coro. Un conto è vestire i panni delle damine settecentesche come nelle Maschere, altra faccenda assumere gli atteggiamenti discinti di licenziose puellae della Suburra e concessive matronae nella domus aurea neroniana. Mascagni s’innervosisce, punzecchia il coro anche dal lato musicale, e durante un ensemble chiede al M. Zucchi di riportare la compagine in sala. Secondo l’avviso del collaboratore, invece, l’assieme era perfetto; allora Mascagni, per giustificare i suoi desiderata, dal podio si mise a far ripetere al coro gli incisi contestati. In un solo attimo le belle frasi, i nobili sensi del 1931 furono dimenticati. E mena e dai, e ripeti. Sembra che l’orchestra ad un certo momento sia insorta, rifiutando di suonare ancora gli stessi brani. Sembra anche che Roberto Zucchi, dalla quinta, scandisse al coro un tempo diverso da quello staccato da Mascagni e che, invitato a seguire il gesto del direttore d’orchestra, egli abbia seccamente rifiutato. In quel momento nere nubi di tempesta si addensarono sul teatro Goldoni. Gridò Mascagni, gridò Zucchi, gridarono i maestri sostituti ed anche il regisseur. Intervenne persino la signora Zucchi, che seguiva la prova da un palco, trovando immediata solidarietà nella sezione femminile del coro. Si sostiene che le parole di Mascagni siano state irriguardose, ma si aggiunge tuttavia che un oggetto appartenente alla mise d’una signora, ovvero la borsetta della signora Zucchi, sia volato all’indirizzo del compositore e l’abbia colpito. Una vera baraonda. Il caso fu poi risolto da una buona cena e con l’integrazione di alcune coriste provenienti dalla Scala.
E’ impossibile stabilire con esattezza l’andamento della disputa, comunque suffragato anche dalla parte Zucchi, ed inutile aggiungere che a Livorno si fece un gran parlare dell’accaduto, ancora ricordato con spasso negli ambienti musicali a distanza di tanti anni.