SPECIALE “LA BOHÈME” a Firenze e Lucca: introduzione del critico Fulvio Venturi
A Lucca stanno per cominciare “I giorni di Puccini” e l’avvio della manifestazione per ricordare il grande Maestro lucchese sarà concomitante con il debutto della stagione lirica al Teatro del Giglio (www.teatrodelgiglio.it). Per cui “La Bohème” è l’opera puccinina prescelta per avviare e salutare i due eventi (“prima” venerdì 25 novembre 2016, replica domenica 27 novembre). Nel frattempo all’Opera di Firenze, per la stagione del Maggio musicale, “La Bohème” debutta giovedì 17 novembre 2016 alle ore 20 (repliche fino al 27 novembre) sul palcoscenico del nuovo teatro (www.operadifirenze.it). Ecco a seguire una lettura di “La Bohème” dello scrittore e critico musicale Fulvio Venturi.
di Fulvio Venturi
Da centoventi anni La Bohème rinverdisce il suo successo tanto nei piccoli quanto nei grandi teatri, in provincia come nelle metropoli. Emblematico il caso di Livorno, città mascagnana senza ombra di dubbio, almeno un secolo fa. In riva al Tirreno appartiene alla Bohème il record di rappresentazioni per una sola produzione con le trentuno recite assommate nel 1899 al Politeama e una sequela d’interpreti ultra qualificata, storicizzata, che nel corso degli anni ha messo in fila i nomi di Enrico Caruso ed Amedeo Bassi, di Riccardo Stracciari e Rosetta Pampanini, di Galliano Masini e Giuseppe Lugo, di Juanita Caracciolo e Francisca Solari. Persino Mascagni, nel 1930, volle portare e dirigere nella sua città la stessa produzione della Bohème che il mese precedente aveva inaugurato il festival pucciniano di Torre del Lago con una specie di nazionale del canto formata da Mafalda Favero e Margherita Carosio, da Angelo Minghetti, Luigi Montesanto, Ernesto Badini e Giacomo Vaghi. Né si può tacere che nel mondo la fortuna di quest’opera sia legata a nomi come quelli di Arturo Toscanini e Herbert von Karajan, Luciano Pavarotti e Mirella Freni, Domingo e Renata Scotto, se non Beniamino Gigli e via e via.
Neanche è dato sapere dove risieda il segreto di tanto successo. Certamente alcuni ingredienti sono costituiti dalla semplicità e dal lato sentimentale della trama, dalla colta scrittura musicale di Puccini che diventa passione, persino da un certo virtuosismo moderno nella vocalità e nella orchestrazione che rendono La Bohème oggetto del desiderio di cantanti e direttori d’orchestra, nonché quel soggetto d’amore e di morte che intriga i registi. Gli spettatori ridono e sorridono per i primi due atti, si commuovono al terzo dove l’inverno diventa poesia con le fontane che chiacchierano la brezza della sera, e piangono al quarto, così come si dice fece Puccini, alla morte di Mimì. Di rivali, in questo senso, ne conosciamo pochi – forse ancora e solo pucciniani? – e persino un’opera omonima e coeva, La Bohème di Leoncavallo, bella peraltro, ha potuto affiancarsi a questa del Lucchese.
E come spesso accade non si può dire che tanto capo di lavoro abbia avuto una facile genesi. Individuata la tela nelle Scènes de vie de bohème di Henri Murger, testo pubblicato fra il 1845 e il 1851, con diversi adattamenti teatrali a partire dal 1849, e incaricati Luigi Illica e Giuseppe Giacosa della riduzione librettistica le cose non marciarono punto bene. I due poeti guardavano superciliosamente le continue richieste di Puccini, – una per tutte, il “cocoricò cocoricò bistecca”, esempio di scansione richiesto dal musicista per il valzer di Musetta, “quando me n’ vo, quando me n’ vo soletta” – e il cammino si rese accidentato in più d’una occasione. I lavori erano iniziati nel gennaio 1893, ancor prima della venuta al mondo di Manon Lescaut, e Puccini pose termine alla partitura il 10 novembre 1895, “provando l’effetto di aver visto morire” una sua creatura. E’ lo stesso musicista (nella foto in alto a sinistra e, in basso a sinistra, particolare della facciata del Teatro del Giglio di Lucca) ad informarci di ciò in una sorta di memoria durante i giorni della polemica con Leoncavallo che vantava diritti di priorità sul soggetto. L’opera andò in scena al Regio di Torino il 1 febbraio 1896. Chi vuol vedere scaramanzia in quella data e in quel luogo faccia pure. Il primo febbraio 1893, dunque esattamente tre anni avanti, al Regio di Torino era andata in scena con un memorabile successo Manon Lescaut. E se vuole può aggiungere che Arturo Toscanini fu il direttore d’orchestra per entrambe le opere. L’esito della Bohème, tuttavia, non sembrò eguagliare quello della consorella Manon. Il pubblico dette una risposta favorevole, ma la critica fu divisa. Qualcuno scrisse che si trattava dell’errore di un momento (fine perifrasi con il peccato d’amore) altri di “deplorevole declino” dell’arte lirica, e Carlo d’Ormeville, importante impresario e librettista, da ultimo volle chiosare i giudizi negativi vergando lapidariamente in un telegramma, “Bohème opera mancata non farà giro”. Pensa te. Viene quasi da riflettere sui casi della vita.