PIETRO MASCAGNI E LA PICCOLA LIRICA / 3. Lo strano, impervio e tortuoso cammino di Sì. “Un’idea bislacca” (parole del compositore) ricca di note belle e commoventi. L’analisi di Fulvio Venturi
Venerdì 23 novembre 2018 (ore 20.30, fra gli interpreti il tenore Fabio Armiliato / nella foto sopra il titolo di Antoni Bernard, direttore d’orchestra Valerio Galli) “Sì” di Pietro Mascagni debutta sul palcoscenico del Teatro Goldoni di Livorno nel nuovo allestimento dello stesso teatro (replica domenica 25 novembre alle 16.30). Ecco un’analisi della “piccola lirica” mascagnana di Fulvio Venturi, saggista, critico e musicologo.
di FULVIO VENTURI
La composizione dell’operetta “Sì” fu, secondo lo stesso Pietro Mascagni, “un’idea bislacca” portata avanti con l’impresario Carlo Lombardo. Un soggetto triste (in un’operetta?) ambientato nella Parigi dei locali notturni e del démi-monde che rivestì di note belle e commoventi e impreziosì con un’aria magistrale per soprano, roba da grandi cantanti (il malinconico valzer “Poche rose languenti”) più che da “soubrettes” della piccola lirica. Nella produzione di un musicista “serio” questa partitura deliziosa e leggera potrebbe essere una vera chicca, ma Mascagni, al tempo di questa operazione ne combinò proprio delle belle. Litigò persino con l’ombra di se stesso e dette querele ad impresari, gestori di teatri, compagnie d’artisti di modo che di “Sì” nessuno parlò quasi più. Ai nostri occhi postmoderni questa sua composizione sembra invece degna di massima attenzione, così rivolgiamo lo sguardo al passato per scrutare le ragioni di un oblio.
Per quanto alla prima rappresentazione di “Sì”, avvenuta al Teatro Quirino di Roma il 13 dicembre 1919, fosse arriso il più lieto successo di pubblico, Pietro Mascagni non rimase soddisfatto dell’esecuzione che la Compagnia Lombardo N. 1 aveva approntato della sua operetta.
Il musicista aveva dimostrato buona disposizione iniziale verso l’intera operazione, curando direttamente anche alcuni dettagli come l’illustrazione di copertina dello spartito per canto e piano; poi, quasi d’improvviso, Mascagni mostrò rassegnazione, quasi disamore, verso la sua operetta, quando avvertì di non poter disporre di alcuni cantanti che costavano troppo come Florica Cristoforeanu e dunque ebbe la sensazione che l’allestimento di “Sì”, usando le sue parole, sarebbe avvenuto a “scartamento ridotto”.
Informato durante le prove, Mascagni non volle neppure presenziare alla prima rappresentazione e, nei giorni a seguire, ancora nello stesso dicembre 1919, scrisse: “… ho dato istruzione a Vaturi (Vittorio Vaturi, uno dei suoi avvocati, nda) di proibire l’esecuzione dell’operetta, che si eseguisce in modo vergognoso…”. Benché deluso dalla mancata scrittura degli artisti sperati, lo scontento dell’autore era dettato non tanto dalla compagnia di canto quanto dai notevoli rimaneggiamenti compiuti dai fratelli Lombardo sulla partitura originale.
Tale veto rimase vigente fino all’estate 1920, quando Mascagni tornò a Livorno per il consueto soggiorno estivo e proprio nella città natale egli fece sequestrare la partitura di “Sì” alla Compagnia Davico-Fineschi-Lombardo, che era in procinto di mettere in scena l’operetta al Politeama. Il sequestro dette l’avvio ad una accesa polemica sulle pagine del “Telegrafo”, della “Gazzetta Livornese” e del “Corriere del Tirreno” tra i giornalisti Gino Chelazzi e Giovanni Orsini, nella quale si calò in prima persona Mascagni stesso. La situazione fu risolta da un éscamotage del proprietario del Politeama, Cesare Gragnani, che riuscì a far recedere il musicista dall’atteggiamento d’intransigenza. Per essere precisi, detta polemica divampò sui giornali livornesi dal 22 al 29 luglio 1920, con punte di particolare incandescenza attorno al giorno 26. Purtroppo non è possibile ricostruire l’entità esatta degli interventi per il mancato reperimento del “Corriere del Tirreno”, dal quale comunicarono Orsini e Mascagni. Tuttavia, Emilio Gragnani, figlio del proprietario del Politeama ed eminente musicologo, ha lasciato una sapida cronaca di quei giorni nel libro “Pietro Mascagni”, curato da Mario Morini per Casa Musicale Sonzogno e pubblicato a Milano nel 1964 (vol. II, pagg 67/68).
Per riassumere, finì così: con uno dei suoi frequenti sbalzi d’umore, dopo aver ottenuto tutte le rassicurazioni sulla qualità esecutiva, Mascagni accondiscese non solo alla rappresentazione di “Sì” al Politeama livornese, ma addirittura a dirigere le recite al termine delle quali affermò che per la prima volta la sua operetta aveva avuto esecuzione integrale e soddisfacente. Il successo fu notevolissimo, valse il primato d’incassi del teatro (il 10 agosto il botteghino staccò 2448 biglietti!) e consentì la ripresa della circolazione del titolo.
In seguito abbiamo notizie certe che questo lavoro fece parte del repertorio delle compagnie Pancani, Fasano e “La Gaudiosa” che misero in scena “Sì” nel 1922, nel 1925 e nel 1926. Non sappiamo se queste produzioni avessero goduto della stima di Mascagni, il quale tornò a parlare della sua operetta nel 1924, in occasione di un suo lungo impegno artistico in Austria e in Germania. Mascagni fu scritturato per dirigere “Cavalleria rusticana”, “Pagliacci”, “Tosca”, “L’amico Fritz”, “Ernani”, molti concerti, “La Traviata”, “Aida”, e proprio “Sì”.
Fu un fatto nuovo e fortunato nella storia di “Sì”, che da gennaio a marzo 1925 fu replicata a Vienna oltre cinquanta volte; il libretto era stato tradotto in tedesco (con il titolo “Ja”) dal regista Josco Schubert che curò anche la messa in scena. Mascagni apportò qualche ritocco alla partitura e compose un nuovo terzetto grottesco.
Il successo schiettissimo fece indire una tournée nella quale “Ja” toccò diverse città d’influenza tedesca e terminò a Baden-Baden. Per Mascagni fu una piccola soddisfazione che lo ripagò delle delusioni subite l’anno precedente per la mancata nomina a Senatore. Il successo in terra austriaca, che fece preconizzare la composizione di una nuova operetta mascagnana, “Lo Zarewitsch”, poi musicata da Lehàr, avrebbe fatto intendere una ripresa d’interesse per rappresentazioni d’alto livello di “Sì” anche in Italia, invece costi di produzione altissimi, insostenibili per le compagnie d’operetta, la sufficienza con la quale nel nostro paese è stata storicamente guardata la “piccola lirica”, l’alternarsi della fortuna nell’excursus di Pietro Mascagni, fecero dimenticare “Sì” che tornò in scena solo nel 1937.
Era un periodo non facile per Pietro Mascagni che l’anno precedente aveva perduto il figlio Dino e che aveva assistito impotente al sostanziale fallimento della sua ultima opera “Nerone” nella quale aveva riposto molte speranze. I grandi teatri consideravano l’anziano compositore alla stregua di un oggetto ingombrante, passato di moda, cui dare ogni tanto un po’ di lustro. Mascagni, che avvertiva nettamente questo stato di cose, voleva dimostrare di non essere finito. Di continuo analizzava progetti, pensava ad una colonna sonora per un film, ad un’opera su libretto di Luigi Orsini o di Mario Ghisalberti da accoppiare a “Cavalleria” nell’imminente cinquantenario del suo lavoro giovanile ed ancora sosteneva una frenetica attività direttoriale, accettando scritture come se fosse stato un ragazzino. E queste scritture arrivavano soprattutto dalla provincia.
A Livorno il desiderio di riascoltare “Sì” fu unito a quello di riutilizzare come luogo di spettacolo lo spazio più esclusivo dell’estate, il giardino dell’Albergo Palazzo, dove Mascagni aveva già diretto due concerti con l’orchestra dell’Augusteo.
“Sì” fu dunque colà allestita dal 9 al 14 agosto 1937 con la direzione di Pietro Mascagni.
L’allestimento prese le mosse dalla fortunata edizione viennese di dodici anni prima. Regista fu colui che aveva mutato “Sì” in “Ja”, Josco Schubert; coreografa la moglie di Schubert, Traudl Samesch, prima ballerina a Vienna; mitteleuropea la protagonista dell’operetta, la soubrette Danica Savic. Da Vienna giunsero anche il corpo di ballo, i costumi e alcune maestranze. L’orchestra fu invece italiana, quell’Orchestra Labronica fondata l’anno precedente dal succitato Emilio Gragnani. Il settantaquattrenne Pietro Mascagni fu esigente e animato da straordinario vigore. Fece cambiare l’ubicazione del palcoscenico prefabbricato, che fu addossato alla scalinata posteriore dell’Albergo, onde sfruttare i vani del bar come retropalco e ottenere maggiore capienza dalla platea. Fino a qualche anno fa alcuni vecchi livornesi lo ricordavano dare ordini alle maestranze in maniche di camicia, immacolati pantaloni di lino bianco, bretelle e cappello di panama. Montato il palco secondo i suoi desideri, Mascagni dette inizio alla concertazione dell’operetta e presenziò anche a tutte le prove di regia. Le recite riscossero successo tale da rimanere scolpite nella memoria storica livornese più di molte altre produzioni di alta qualità. L’incontentabile Mascagni rimase invece parzialmente soddisfatto: lodò l’orchestra, il coro, il corpo di ballo, la messa in scena, ma, riguardo ai cantanti fu convinto solo della prestazione di Nerina Ferrari nella parte di Vera.
L’esito festosissimo non fece scorgere l’addensarsi di fosche nubi di guerra sul lungomare labronico: nei giorni precedenti Galeazzo Ciano e Pedro Garcia Conde si erano incontrati a Tirrenia per stabilire l’entità degli interventi italiani in Spagna.
L’operetta fu ripresa da Mascagni l’anno successivo ad Abbazia con il tenore Nino Bertelli, alfiere mascagnano temprato da mille battaglie, che vestiva per la prima volta i panni di Luciano di Chablis ed ancora con Nerina Ferrari in quelli di Vera. Impegnato contemporaneamente a Roma (“Isabeau” a Caracalla), Napoli (“Cavalleria” all’Arenaccia) e Palermo (“Il piccolo Marat” al Teatro dei Diecimila di Piazza Vittoria), Mascagni lasciò che le prove di “Sì” fossero condotte da Federico del Cupolo fino alla “generale”, durante la quale l’autore e gli esecutori ricevettero la visita del Principe Umberto, “molto cortese e pieno di gentilezze”. E’ una lettera di Mascagni (indirizzata ad Anna Lolli il 5 agosto 1938) ad informarci anche sulla qualità esecutiva, oltre che sulla cronaca. La prima donna (Mascagni dimenticò il suo nome) cantò ammalata “togliendo i pezzi più importanti” della sua parte; “molto bene la Ferrari” e Bertelli “benissimo (anche nella recitazione)”. Il parere dell’autore fu che i cori, la messa in scena ed i costumi fossero “molto al di sotto di quelli di Livorno”. Tuttavia, “nell’insieme (fu) un buon spettacolo” concluse Mascagni che per l’ultima volta aveva diretto “Sì”.
Finiva un’epoca.
***IL NUOVO DEBUTTO AL TEATRO GOLDONI DI LIVORNO, CON FABIO ARMILIATO
Venerdì 23 novembre 2018 (ore 20.30, fra gli interpreti il tenore Fabio Armiliato, direttore d’orchestra Valerio Galli) “Sì” di Pietro Mascagni debutta sul palcoscenico del Teatro Goldoni di Livorno nel nuovo allestimento dello stesso teatro (replica domenica 25 novembre alle 16.30). Ecco un’analisi della “piccola lirica” mascagnana di Fulvio Venturi, saggista, critico e musicologo.
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Come al solito, recensione ricca di contenuti, particolari storici, aneddoti. La considerazione vale per la recensione di qualunque opera da parte del musicologo Venturi, ma quando c’è una composizione di Pietro Mascagni, allora si mostra evidente non solo la profonda conoscenza dell’argomento, ma anche la passione e l’incontenibile ammirazione per il compositore livornese. E, nel caso di “SI” l’entusiasmo è ampiamente giustificato: non si devono fare paragoni con altri autori più rappresentati, però viene da domandarsi se sia lecito far trascorrere 80 anni per assistere, a Livorno, a due rappresentazioni di “SI”. Una nota: SI è stata composta a Livorno, nella villa di Antignano, e anche questo è un aneddoto degno di menzione.
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