Il Barbiere di Siviglia al Maggio Musicale: con Daniele Gatti sul podio funziona tutto a meraviglia. Prestazione fantastica dell’orchestra e la “gemma” di Rosina secondo Vasilisa Berzhanskaya. La recensione di Fulvio Venturi

di FULVIO VENTURI

Diciamolo subito, questo Barbiere di Siviglia ha un signore: Daniele Gatti. Funziona tutto a meraviglia. La pulizia orchestrale che senza essere cameristica mette in evidenza passaggi virtuosistici, finezza dell’ordito e qualità di suono in modo esemplare; capacità di tenere sotto controllo una partitura che ad altri scappa da tutte le parti; acutezza dell’interpretazione che in alcuni passaggi libera il direttore da una aderenza stilistica pedissequa, confrontandosi già dalla sinfonia con certi inaspettati rallentando  quando l’orchestra è già lanciata ad alta velocita che ci sembrano cifra inequivocabile di un rossinismo “alla moderna”. Direi inoltre che Daniele Gatti firmi il suo capolavoro nel secondo atto dell’opera, in una scena della lezione che veramente ti schioda dalla poltrona, con un susseguirsi di situazioni comiche che si alternano a lancinanti patetismi e soprattutto con quello che accade dopo il temporale, condotto con una precisione ed un ritmo interno veramente magistrali. E qui la mia canuta età m’induce ad un solo paragone diretto, quello con Claudio Abbado. Resta poi da dire che l’Orchestra del Maggio, eccellente compagine, trae da tanta bacchetta un brio ed un nitore raramente riscontrabili: prestazione fantastica.

Ma questo Barbiere di Siviglia ha anche una gemma nel cast: Vasilisa Berzhanskaya, Rosina. Parafrasando Cardarelli “già la sentimmo cantare” in una produzione televisiva romana (sempre “Barbiere” e sempre con Gatti) e ci piacque molto: dal vivo è meglio. Voce vellutata, colore bellissimo di mezzosoprano-contralto con un sapore dolce-amaro da cioccolato in purezza, fantastiche agilità di coloratura sgranate senza cantarsele addosso, capacità di stare sempre sul fiato, “flou” di vaga malinconia, registro basso profondo e naturale, interprete vispa e misurata. Una Rosina di altissima classe.

Il resto della distribuzione canora è funzionale alla lettura di Gatti e all’idea dello spettacolo, della quale parlerò dopo, con il Figaro dal fraseggio lavico e dalla figura “lablasciana” (Luigi Lablache, napoletano, favoloso Figaro e Bartolo di epoca rossiniana) di Nicola Alaimo, il Don Bartolo ben articolato di Fabio Capitanucci, la simpatica Berta di Carmen Buendìa e l’ottimo Fiorello di Eduardo Martínez Flores.

Di Ruzil Gatin potrei dire che il curriculum parla per lui: a trentacinque anni ha cantato Almaviva presso molte istituzioni di rilievo (e anche nel citato “Barbiere” televisivo, sempre con Gatti), tuttavia qualcosa nel timbro sbiancato e nelle eccessive dinamiche vocali dal piano al forte non mi ha convinto. Ugualmente il basso Evgenyi Stavinskyi, Basilio, per quanto decoroso, mi è parso un po’ piatto nella “Calunnia” e pure tendente ad un certo liturgismo slavo nella voce. A palla, veramente a palla il coro del Maggio diretto da Lorenzo Fratini, bra-vis-si-mi.

 

La parte visiva era quella ultra collaudata di Damiano Michieletto, con costumi di Carla Teti, luci di Alessandro Tutini e regia ripresa da Andrea Bernard. Qui a Firenze si vede dal 2015. Ora non mi prenda per retrivo la gran marea dei fans di Michieletto se scrivo che talvolta trovandomi immerso negli spettacoli del geniale regista veneto mi sono sentito un pesce fuor d’acqua. Stavolta, ad esempio, a spiaggiarmi come una sardina depisisiana sono stati i costumi che proprio hanno poco a spartire con il mio colpo d’occhio. Purtuttavia non sono cieco al punto da negare a questa messa in scena scorrevolezza e teatralità.