FESTIVAL PUCCINI 2023. Il filo dell’incomunicabilità lega il pucciniano Tabarro al duca Barbablù. A Torre del Lago la scelta felice e intrigante di proporre questo dittico. La recensione di Fulvio Venturi

di FULVIO VENTURI

L’incomunicabilità è il filo che lega Il Tabarro a Kékszakállú Herceg vará, Il castello del duca Barbablù, molto più del medesimo anno di nascita che è il 1918 per entrambe le opere. 

Due storie coniugali. 

Tragica quella del Tabarro, ambientata su un barcone per la navigazione fluviale ancorato sul Lungosenna, dove si rievoca la vita felice, si consuma un amore clandestino e un assassinio per gelosia, sullo sfondo di una Parigi delle chansons-à-boire e delle rivolte sociali.

Estremamente elitaria, misteriosa, nobiliare di una nobiliarità che sta soccombendo insieme con la disfatta degli imperi centrali nella prima guerra mondiale, quella di Barbablù. 

Niente di più pucciniano nel Tabarro, con il suo spleen, il suo tramonto, il suo scorrere del fiume, niente di più dolorosamente e raffinatamente mitteleuropeo nell’opera di Bartók. 

E se spettri sembrano Barbablù e la moglie Judit, non è che gli spettri manchino nel Tabarro, dal bimbo morto alle risate isteriche della Frugola, dai clacson e dalle sirene di imbarcazioni che procedono nel gran fiume ai segnali militari di una caserma invisibile dappresso alla scena. 

Potremmo dire perciò che Il Tabarro e Barbablù (adottiamo la forma abbreviata in italiano per questo titolo) siano opere fortemente legate fra loro? No, ma indubbiamente vicino stanno bene. 

Il malessere di vivere è lo stesso.

A suffragio di tutto questo potremmo aggiungere che entrambe le opere furono oggetto di ampi ripensamenti da parte dei rispettivi autori e che attesero un bel po’ prima di vedere la scena. 

Dunque avvicinarle pur nella loro diversità è una scelta felice ed intrigante.

Facente parte del progetto “Trittico ricomposto” varato dall’Opera di Roma e qui coprodotto con il Festival Puccini, l’allestimento delle due opere ha una lettura psicoanalitica e una messa in scena comune, che fa leva su una citazione dell’Isola dei Morti di Böcklin e su sapienti interventi audiovisivi. Ad esempio, una registrazione di Crisantemi, l’elegia composta da Puccini per la morte di Amedeo di Savoia, duca d’Aosta, apre Il Tabarro e una della Morte e la Fanciulla di Schubert si ode prima di Barbablù. Per il resto la regia di Johannes Erath (con le scene di Katrin Connan e costumi di Noëlle Blancpain) è parsa molto più calzante e logica nel gelo dei sentimenti di Barbablù che in un’opera del rimpianto come Il Tabarro, durante la cui mise-en-scène spesso ci siamo chiesti che cosa significasse la presenza di ballerine in tutù e del mare allorquando uno spleen tutto fluviale permea l’azione. Peraltro la proiezione che focalizza l’assassinio per annegamento di Luigi, con un agghiacciante primo piano, non la dimenticheremo.

Dal lato esecutivo in grande evidenza la bella direzione di Michele Gamba e l’ottima prova dell’Orchestra del Festival Puccini, chiamata qui ad un difficile impegno brillantemente assolto, e del Coro (Maestro Roberto Ardigò) al quale in questa serata sono riservati pochi ed incisivi interventi.

Il Tabarro si è avvalso di un cast omogeneo, dove è emerso il fraseggio dell’esperto Lucio Gallo (Michele, nondimeno giunto un po’ affaticato al periglioso finale), l’umana passione di Monica Zanettin, Giorgetta, e la tenuta di Azer Zada, Luigi.

Da congiungere ad una stessa valutazione tutti gli altri, dalla Frugola di Loriana Castellano al Talpa di Francesco Auriemma, dal Tinca di Enrico Cesari al Venditore di Canzonette di Gianmarco Latini Mastini, dagli Amanti di Francesca Mannino e Marco Montagna alle Midinettes di Monica Arcangeli, Nicoletta Celati, Chiang Chung Wen, Taisiia Gueeva, Sara Guidi, Federica Nardi ed alla Voce di Sopranino di Masami Tsukamoto. 

Nella conduzione della splendida partitura di Bartók, Michele Gamba è parso ancor più a suo agio. Se qua e là nell’opera di Puccini il giovane direttore dava l’impressione di una contenutezza e di un pudore sonoro financo eccessivi, in Barbablù lo abbiamo apprezzato per la raffinatezza e la proprietà con la quale ha saputo riconsegnare la complessa partitura densa di suono e di riflessi interiori. 

In palcoscenico ottimo, composto e glaciale il bass-baryton Johannes Martin Kräntzle è stato un Barbablù pressoché perfetto e addirittura strepitosa per vocalità, musicalità e slancio interpretativo Szilvia Vörös come Judit.

Al termine lunghi applausi da parte di un pubblico numeroso.