“C’era una volta Studio Uno”, ritratto della tv e dell’Italia degli anni Sessanta (un articolo di Elisabetta Arrighi)

di ELISABETTA ARRIGHI

L’importante è non farsi prendere dal nodo alla gola della nostalgia, quella che inumidisce gli occhi e fa dire: “Che bei tempi erano quelli!”. Ma, sia chiaro, un po’ di nostalgia può anche essere salutare, perché riguardando o ripensando a certi programmi in tv, considerati con il senno di poi veri cult della Rai, questi si imprimeranno ancora di più nella nostra memoria permettendoci così di ricordare proprio “quei tempi” che hanno fatto grande la tv targata Rai nonostante i limiti di un “conservatorismo” sociale tipico dell’Italia di allora. “Studio Uno” è uno di quei programmi, che prese il nome, appunto, dallo Studio 1 che si trovava a Roma in via Teulada.

Correva l’anno 1961. E oggi, che corre l’anno 2017, Studio Uno ritorna. Trasformato in una mini-fiction in due puntate che sarà mandata in onda – il titolo è “C’era una volta Studio Uno” – il 13 e 14 febbraio in prima serata su Raiuno, dopo la conclusione del Festival di Sanremo condotto da Carlo Conti. Che oggi è il “signore” della tv capace di trasformare il Festival (lo ha fatto per due anni consecutivi, nel 2015 e nel 2016) in record di ascolti. In questo modo – prima Sanremo e poi Studio Uno – la rete ammiraglia potrebbe imboccare un filotto da super record. Perché l’amarcord, il “come eravamo”, chiama sempre gli ascolti.

Ideata da Antonello Falqui e Guido Sacerdote, la trasmissione dei primi anni Sessanta (il debutto fu il 21 ottobre 1961, un sabato, proseguirà fino al 1966) contava su quelli che erano già o stavano per diventarlo i veri divi del piccolo schermo all’italiana. Chi all’epoca aveva almeno cinque o sei anni, e in casa aveva un televisore rigorosamente in bianco e nero, ricorderà certo le gemelle Kessler, Alice ed Ellen (nella foto sopra a destra), con le spesse calze nere a censurare le chilometriche gambe tedesche, rigorose negli allenamenti che il sabato sera le vedeva trasformarsi nelle regine del ballo in tv.

Il piccolo Don Lurio (nella foto a sinistra con Lola Falana mentre balla in uno show Rai del sabato sera nel 1967), un vero folletto della danza, era arrivato dall’America per realizzare coreografie che, allora, erano straordinariamente moderne. E poi quel Da-Da-Umpa che cantavano le Kessler. Una specie di canzone-mantra, che continua a risuonare nelle orecchie dei figli degli anni Cinquanta. E i boys citati nel testo c’erano davvero, in studio in carne ossa: si chiamavano Gemelli Blackburn.

C’era anche il maestro Bruno Canfora (foto a destra), con i suoi immancabili baffi e occhiali, che dirigeva l’orchestra con un inconfondibile swing anni Sessanta: del Da-Da-Umpa (sigla del primo ciclo di “Studio Uno”, in alcune versioni con la “n” al posto della “m”) era il papà musicale mentre Dino Verde aveva scritto il testo. Non mancavano il prestidigitatore Mac Ronay, l’intrattenitore Marcel Amont e anche il Quartetto Cetra, onnipresente icona di quegli anni in tv.

E infine ecco lei, Mina (foto a sinistra e nella foto grande sopra il titolo, mentre canta con un microfono a giraffa che si intravede in alto), con gli abiti lunghi “da sera”, i capelli corti e cotonati, gli occhi truccati con l’eye liner nero, le sopracciglia sempre più rasate: una grande voce prestata alla conduzione (tranquilli, cantava anche le sue canzoni, a partire da “Le mille bolle blu”), spiritosa e disinvolta nei “duetti” con grandi personaggi del teatro e del cinema, da Totò a Marcello Mastroianni, da Nino Manfredi ad Alberto Sordi, da Vittorio De Sica a Rossano Brazzi…

“Studio Uno” era un contenitore leggero di musica, canzoni, parole, balletti, comicità. Un programma di intrattenimento per famiglie. Il vero “varietà televisivo” del sabato sera che sarà una caratteristica della Rai fino agli anni Settanta, quando i gusti cambieranno seguendo di pari passo i mutamenti della società. Un varietà che la storia ha consegnato alle immagini dell’epoca, fotografia di una società, quella italiana, che dopo la durezza e la tragedia della guerra (terminata appena 16 anni prima), aveva trovato un moderno benessere diffuso.

Adesso “Studio Uno” ritorna. Non è più un varietà e ha davanti quel “C’era una volta…”, come l’incipit di una fiaba. Ci sono tre ragazze – le attrici Alessandra Mastronardi, Diana Del Bufalo e Giusy Buscemi – che sognano di entrare in Rai, chi come segretaria, chi come ballerina o cantante. C’è Mina che conduce il varietà del sabato sera, ci sono gli anni Sessanta che fanno da sfondo alla storia. E nella fiction di oggi si mescolano spezzoni autentici dell’epoca (le classiche “immagini di repertorio” conservate negli immensi arrivi della Rai). Nessuno interpreta Mina, Don Lurio e le Kessler: “Inconcepibile trovare dei sosia” hanno dichiarato i produttori al Corriere della Sera. La mini-serie in due puntate (la regia è firmata da Riccardo Donna) è prodotta da Rai-Fiction con LuxVide, la casa di produzione di Luca e Matilde Bernabei, figli di Ettore (scomparso di recente), che in quei primi anni Sessanta – quelli del vero “Studio Uno” – era il direttore generale della Rai. Ricordi pubblici e privati si intrecciano. Mentre le immagini in bianco e nero scorrono e raccontano un’altra epoca già consegnata alla storia. Da guardare con affetto più che con nostalgia. 

“Hello boys! Traversando tutto l’Illinois / valicammo il Tennessee / senza scalo fino a qui / è arrivato il da-da-umpa / da-da-umpa / da-da-umpa / da-da-umpa…”. Le Kessler continuano a cantare l’ossessivo ritornello grazie ai vecchi 45 giri. Allora, sopra le calze nere, portavano un costume di scena a corpetto modernissimo nella forma, con mille jais tintinnanti e scintillanti. I lustrini simbolo di un varietà che non tornerà più.