“Andrea Chénier” alla Scala con l’anima di Riccardo Chailly. Netrebko un poco anonima, Eyvazov dignitoso, Bosi fresco nei suoni. E alla fine 15 minuti di applausi
di FULVIO VENTURI
Alla Scala, dove siamo presenti dal 1971, ne ho viste tante, ma successi come quello di martedì 2 gennaio 2018, di rado. Andrea Chénier, un quarto d‘ora di applausi, molte chiamate al proscenio, neanche un dissenso. Credo che a tanto felice esito abbiano concorso alcuni fattori. La “piacevolezza“ visiva delle scene e dei costumi, la compattezza di un cast senza punte di diamante nelle parti principali ma molto ben supportato da un insieme di alta professionalità, i valori di una partitura da sempre guardata superciliosamente da quella parte della critica devota ai massimi sistemi, ma straordinaria nella comunicazione delle emozioni, nell‘afflato melodico, nell‘uso efficace della retorica. Ci sarebbe poi da citare il particolare connubio fra Andrea Chénier e la Scala, teatro dove l’opera di Giordano nacque nel 1896 e dove ha rivissuto di trionfo in trionfo per il valore di eletti interpreti quali Borgatti e Pertile, Gigli e Masini, Del Monaco e Corelli, Cappuccilli e Protti, Maria Callas, Renata Tebaldi e Anna Tomowa Sintow. Né sono mancati al ruolino di Chénier scultorei plasmatori di suoni quali Rodolfo Ferrari e De Sabata (al quale la produzione è dedicata), Guarnieri e Marinuzzi, Capuana e Gavazzeni, nonché lo stesso Umberto Giordano.
E diciamolo subito, se questa produzione ha un‘anima, essa è quella di Riccardo Chailly (nella foto a destra). Il direttore milanese, che ormai annovera esperienza ultra-trentennale con Chénier, conosce e interpreta ogni più intimo recesso della partitura giordaniana cha affronta con passione metronomica nei passi falso-settecenteschi dei primi due atti per aprirsi ad inaspettati lirismi nei momenti amorosi, fino alla formazione di un grande quadro popolare e storico nel tribunale rivoluzionario del terzo atto. Diremmo che Chailly colga persino i profumi, gli aromi, le melanconie erotiche di quest’opera, come all’ingresso delle “meravigliose” e nel canto elegiaco delle pastorelle nel primo atto. A tanto risultato ha contribuito la determinazione dell’orchestra scaligera – era quasi commovente, ad esempio, sentire l’arpa durante l’intervallo provare l’assolo che introduce l’aria “Come un bel dì di maggio” – ed il coerente entusiasmo del coro diretto da Bruno Casoni (in alto sopra il titolo particolare della locandina della rappresentazione d’esordio il 7 dicembre 2017, a seguire fotogallery della serata del 2 gennaio 2018).
Altro punto di forza della produzione, le scene di Margherita Palli e i costumi di Ursula Patzak, indirizzati a restituire un quadro filologicamente vicino al vero. E vicina al vero, sicuramente, appare la regia di Mario Martone, che rimane tuttavia didascalica e senza una vera invenzione e, semmai, ha il pregio di non distogliere lo spettatore, anche se era lecito attendersi di più.
Volutamente lasciamo l’ultima analisi al cast vocale, dove raramente abbiamo rilevato tanta omogeneità e tanta qualità nelle parti di fianco. Non si dimentichi che alla compitezza del dramma storico del librettista Luigi Illica contribuisce tutta una serie di personaggi dal delineato carattere per i quali Giordano disegna ritratti musicali quasi alla maniera del “cammino”. Fra questi primeggia per compenetrazione psicologica e qualità musicale l’Incredibile di Carlo Bosi (nella foto a destra, da Twitter), fresco nei suoni ed efficace in scena. E con lui, per affinità tenorile, l’Abate di Manuel Pierattelli, al debutto scaligero e il distinto Fléville di Costantino Finucci, la cui parte è situata tutta nello scomodissimo passaggio di registro. Molto efficaci anche le tre signore, Mariana Pentcheva (la Contessa), Annalisa Stroppa (Bersi), Judit Kutasi (Madelon), nonché il Roucher di Gabriele Sagona ed il Mathieu di Francesco Verna.
Ed eccoci al trio dei protagonisti. Luca Salsi ha una fonazione che ricorda quella d’un leone d’antan, Giangiacomo Guelfi. Bel colore, suoni cospicui anche se non sempre proiettati, generosità. Gérard è senza dubbio il personaggio più controverso dell’opera: tradisce l’amore, tradisce la rivoluzione, tradisce l’ideale ed è quello che resta vivo. Umano. Avremmo desiderato forse un fraseggio più variegato oppure una incisività che nella chiusa del primo atto e nella perorazione tribunalizia non si è troppo avvertita, ma le risoluzioni positive non sono certo a lui mancate. Un poco anonima è parsa la Maddalena di Anna Netrebko. La voce è bella, ma non dispone della luminosità delle interpreti storiche del personaggio, né il naturale “peso” per la parte ed il bagaglio tecnico appare normale. Ma “normale”, di media difficoltà è la parte di Maddalena di Coigny, oggi contrassegnata da un’icona come l’aria “La mamma morta”, ma non certo assimilabile per spessore a certi personaggi femminili dello stesso “verismo”, come Tosca, Adriana, Iris. Ad Anna Netrebko si avvicinano spesso atteggiamenti divistici, ma l’impressione ricevuta è che invece si sia inserita nello spettacolo con la volontà di dare un contributo e non di primeggiare. E questa è una nota di merito. Il tenore Yussif Eyvazov, compagno di Anna Netrebko anche nella vita e per questo al centro di ingenerosi gossip durante questa produzione, offre una prova dignitosa. Presenta un’ottima carta da visita con il celebre “improvviso” del primo atto, poi lentamente si spegne un po’ nel corso dello spettacolo per riaccendersi nel finale. Manca a lui la passione, l’eloquenza poetica ed anche la “spinta” nella splendida scena con Roucher nel secondo atto, ma ben si esprime nel primo incontro con Maddalena al ponte Peronnet, si destreggia anonimamente fra i meandri centrali della “difesa”, quando ci vorrebbe un fraseggiatore di prima forza. Tuttavia la prestazione Eyvazov è anche risalita nel quarto atto con una buona esposizione di “Come un bel dì di maggio” e con il finale eseguito nella tonalità originale a differenza di tanti illustri colleghi del passato che preferivano rifugiarsi nel più comodo “mezzo tono sotto”. Sì, lo so anch’io che la stragrande maggioranza di quei colleghi disponeva di voci diverse e ben più fascinose, di un fraseggio ora alato, ora incadescente, di un livello artistico superiore, ma a Eyvazov, per onestà, deve essere riconosciuta una prestazione di assoluto decoro. Del successo arriso alla serata abbiamo detto in apertura e noi che ne abbiamo viste tante aggiungiamo: meritato.
One thought on ““Andrea Chénier” alla Scala con l’anima di Riccardo Chailly. Netrebko un poco anonima, Eyvazov dignitoso, Bosi fresco nei suoni. E alla fine 15 minuti di applausi”
Recensione al microscopio. Recepibile soprattutto da esperti ed appassionati. Chapeau!
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