Foggia e Umberto Giordano. Per la seconda volta in dodici anni torna in scena “Marcella”, quasi una rarità. Daniela Schillaci e Max Jota si sono difesi al meglio e con generosità. Mottadelli sul podio dirige con grande equilibrio. La recensione di Fulvio Venturi
di FULVIO VENTURI
Oltre che con il Conservatorio, Foggia ricorda Umberto Giordano che nella città dauna nacque il 28 agosto 1867, con una bella piazza e con il teatro. La piazza, centrale e spaziosa, è caratterizzata da una serie di monumenti bronzei, realizzati dallo scultore Romano Vio, che, disposti attorno alla figura del compositore, rappresentano, con uno stile che singolarmente anticipa quello delle statue di personaggi famosi colti in atteggiamenti quotidiani che oggi si collocano un po’ ovunque e non senza polemiche, le sue opere più famose, o almeno quelle composte dopo “Andrea Chénier” che risale al 1896, con un divertente e forse non casuale aspetto di tableau vivant.
Il Teatro Giordano, già Teatro Dauno e Real Ferdinando, è un bell’edificio di età borbonica, inaugurato nel 1828. Se nell’aspetto esteriore ha perduto abbastanza della primigenia facies attraverso alcune ristrutturazioni già attuate nell’Ottocento, molto di essa conserva all’interno nelle decorazioni pittoriche e nella disposizione della sala.
Dal 1928 esso si dedica appunto a Giordano e da quella data, in modo sia pure inorganico, un po’ come a Livorno per Mascagni, si distingue per la rappresentazione di opere giordaniane.
E là ci siamo recati perché infatti si metteva in scena “Marcella”, titolo fra i meno noti di quelli usciti dall’ingegno del Foggiano, al punto da costituire una rarità.
“Marcella” nacque in un periodo di scarsa vena del suo autore, forse appagato dai successi che in fila gli erano arrisi con “Andrea Chénier” (1896), “Fedora” (1898) e “Siberia” (1903), e che ritroverà lo spunto dei giorni migliori solo a fine carriera con l’asciutta partitura de “La cena delle beffe” (1924) e in quella scintillante del “Re” (1929), tanto gradite da Toscanini.
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“Marcella” è invece una cosina tenue tenue, composta sia pur quando Giordano non aveva ancora quarant’anni, ma forse più per accontentare l’editore Sonzogno, sempre smanioso di tenere il passo del rivale Ricordi, che non per reale necessità. In essa si nota il tentativo di alleggerire le tensioni melodrammatiche di tragedia e di morte in qualcosa di più leggero e quotidiano, come gli amori che non possono consumarsi alla luce del sole. E non che Sonzogno fosse nuovo su questa via: già l’aveva battuta all’inizio del Novecento con “Zazà” dell’indisciplinato Leoncavallo e diciamo subito che lo aveva fatto con ben altra ricchezza di situazioni e d’intenti.
Vi è subito qualcosa che non quadra in “Marcella”, dal voler tenere segreta la fonte ispirativa del “plot” (“Les Amants” di Maurice Donnay, neanche fosse stato Strindberg) all’affidare il libretto ad un fuoriclasse come Henri Cain, per affiancarlo al meno noto Édouard Adenis, ma condannarlo alla “versificazione” di Olindo Guerrini sotto l’immancabile pseudonimo di Lorenzo Stecchetti. Poi i personaggi irrisolti con quel Giorgio, principe di un paese sconosciuto e appassionato di pittura, poesia e donne, ma non di politica, che sembra uscito dal mondo dell’operetta – La vedova allegra è di tre anni prima – dove però ha lasciato tutta la verve. La protagonista Marcella è invece una di quelle ragazze predestinate, dal passato incognito quanto tempestoso e senza domani che troverà di lì ad una decina d’anni tante consorelle dalla “silhoutte serpentinement élégante”, come vedremo ne “La Glu” di Dupont (cosa aspetteranno a riproporla), nella “Rondine” di Puccini, nella “Lodoletta” di Mascagni, e come avevamo già visto nella “Martire” di Samaras (1894). Tutti cavalli più o meno vincenti della scuderia Sonzogno.
Altri prestiti dal mondo dell’operetta e dal prototipo “Zazà”, le “grisettes” e le “démi-mondaines” che popolano il primo atto di “Marcella” e che ritroveremo insieme con le eroine dell’amore perduto in tutta una temperie operistica fino alle tardive declinazioni della “Canzone di San Giovanni” di Giuseppe Pietri (1938) e “Vivì” di Franco Mannino (1957).
Non mancano a “Marcella” anche delle auto-citazioni, come la figura baritonale di Drasco, parente stretto di De Siriex in “Fedora” (a proposito: al Teatro Giordano è stata allestita una sala “Fedora” che ospita cimeli legati a quest’opera e che non si può visitare negli intervalli delle rappresentazioni per mancanza di personale) ma con molta minore incisività.
Scarsa incisività di “Marcella”. Giordano ne era cosciente, tanto è vero che per la prima rappresentazione chiese a Sonzogno due pezzi da novanta come Gemma Bellincioni e Fernando De Lucia, grandi cantanti e interpreti di forte temperamento, in modo da innervare la sua flebile partitura. Grandi cantanti, certo, ma anche un po’ in su con gli anni tanto da poter riversare sulla loro illanguidita vena le cause di un possibile insuccesso. “Se l’opera non va, dirò che essi non l’hanno fatta sentire. Li ho presi come assicurazione per gli infortuni” scrisse disinvoltamente Giordano a Illica durante le prove per la prima assoluta.
Detto questo, e non è poco, rimane da osservare che “Marcella” ha anche momenti di felice ispirazione, come il bell’intermezzo del secondo atto, il duetto che tale pagina interrompe per poi essere ripreso, e tutto il terzo atto, che dal preludio al commiato degli amanti dimora in una enigmatica atmosfera notturna. Certo non è “Nimrod” di Elgar, o la “Walk to the Paradise Garden” da “A village Romeo and Juliet” di Delius, ma è pur sempre una buona e sincera pagina di musica.
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Foggia per seconda volta in dodici anni ha messo in scena “Marcella”, facendo seguito alla produzione del 2007 che ricordava il centenario dell’opera. E la cosa ci sembra lodevole in sé, tanto per il clima di riscoperta che aleggia comunque attorno a queste operazioni, tanto per l’ambito giovanile in cui tale riproposta è nata: l’orchestra e il coro sono stati formati in seno al Conservatorio foggiano.
Marcello Mottadelli ha diretto con grande equilibrio, sia limitando le sonorità che in qualche momento della festa del primo atto sono sfacciatelle, sia dando il giusto respiro, in cerca di una poesia fra le note che indubbiamente esiste nei passi finale. Ed è stato piacevole vedere il direttore “dialogare” con i giovani esecutori, oltre che col gesto, con lo sguardo e con la parola. Ottima anche l’orchestrina sul palco nel primo atto.
Dicevamo dei grandi cantanti che tennero a battesimo “Marcella”, Gemma Bellincioni e Fernando De Lucia; dobbiamo inoltre riferire che in occasione della ripresa scaligera nel 1938, Giordano ebbe a disposizione una giovanissima Magda Olivero (28 anni) e Tito Schipa (per lui aggiunse il delizioso inciso “Dolce notte misteriosa” all’inizio del terzo atto). Dunque con le parti vocali di Marcella e Giorgio non si scherza. Ci vuole, classe, fraseggio, dizione e sicurezza nei primi acuti, che abbondano.
Daniela Schillaci e Max Jota si sono difesi al meglio e con generosità. Luca Grassi ha messo la sua esperienza al servizio di Drasco, risultando efficace nel racconto dell’insurrezione del secondo atto (che ricorda la descrizione dell’annegamento di Valeriano fatto da De Siriex in “Fedora”) e Cuneyt Unsal ha dato voce a Vernier, altro artista frequentato da Giorgio.
Michele Soldo (Flament), Marika Franchino (Raimonda – pochi giorni fa, a Livorno, è stata Santuzza), Ripalta Rufo (Lea), Davide Ferrigno (Barthélemy), Alessandra di Giorgio nella doppia parte di Vera e Clara, hanno completato il cast. Angelo Ceddia ha diretto il coro. L’allestimento si è avvalso della scenografia di Giovanna Giorgianni, con attrezzeria della Bottega Fantastica di Daniele Barbera e costumi della sartoria Shangri-la di Davide Pecorella. La regia è stata affidata ad Antoniu Zamfir. La produzione è stata accompagnata da un raffinato programma di sala. Successo per tutti e un sincero riconoscimento al coordinatore artistico Dino De Palma.
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