Firenze, al Teatro del Maggio Musicale torna dopo ottant’anni “L’amico Fritz di Mascagni” e strappa lunghissimi applausi. Eccellente la direzione orchestrale di Riccardo Frizza, magnifica prestazione del tenore Charles Castronovo. Il sovrintendente Alexander Pereira prima dello spettacolo appare in proscenio con rappresentanti delle maestranze per esprimere solidarietà al popolo ucraino. La recensione di Fulvio Venturi
di FULVIO VENTURI
Lunghi, lunghissimi applausi e diversi minuti di acclamazioni hanno segnato il ritorno dell’Amico Fritz al Teatro del Maggio Musicale a Firenze, dove l’ultima volta era apparso oltre ottanta anni fa, nel 1941, sotto la direzione dell’autore Pietro Mascagni. Già per questo, e per la volontà di perlustrare un repertorio ormai desueto, nel cui ambito questo “Fritz” fa seguito alle riproposte di Risurrezione (Alfano), Siberia (Giordano) e, se volete, di Adriana Lecouvreur, viene voglia di rivolgere un ringraziamento al teatro fiorentino ed al sovrintendente Pereira.
Riguardo al successo che indubbiamente è arriso a questa ripresa (Gavazzeni l’avrebbe definita esumazione) potremmo dire che lo abbiamo sempre saputo. L’amico Fritz non è l’opera cretina che molti hanno definito. È invece una partitura snella, ricca di melodia (siamo nel 1891), ben sostenuta da un respiro sinfonico, e la narrazione, da commedia intimista, vola via spedita, asciutta. Una piccola gemma che potrebbe attestare il valore di un musicista se questi, solo quattrordici mesi avanti, come opera prima, non si fosse presentato con un dramma di straordinaria emotività. E capirete che alludo a Cavalleria rusticana. Mi si potrà obiettare l’immancabile “ma Verdi”, intendendo la celebre stroncatura del Bussetano sull’operina di Mascagni, potrei tuttavia replicare con un meno noto “ma Mahler”, significando l’apprezzamento che il maestro mitteleuropeo espresse riguardo L’amico Fritz dopo averlo diretto ad Amburgo nel 1893.
La produzione fiorentina ha fatto leva sulla eccellente direzione orchestrale di Riccardo Frizza, che ha condotto con chiarezza, mettendo in rilievo le nitide linee compositive della partitura, non lesinando sulla partecipazione, ma senza scadere nel sentimentalismo. In certi momenti, soprattutto verso il finale, la resa sonora è stata forse abbondante, ma lì è Mascagni stesso a “suonare forte” sulle corde dell’entusiasmo; inoltre non conosciamo ancora bene l’acustica della nuovissima Sala Mehta, dove la produzione è stata allestita. Ottima la prestazione dell’orchestra, con la “spalla” Domenico Pierini che ha brillato nell’assolo di violino del primo atto e come al solito del coro diretto da Lorenzo Fratini, pur chiamato qui ad una prova dalla difficoltà irrisoria per gli standard di questa magnifica compagine.
Ottima la compagnia di canto. Elegante in scena, forbito nel fraseggio, franco nell’emissione il tenore Charles Castronovo ha vestito a perfezione i panni del protagonista ed è uscito con signorilità dalle insidie del terzo atto, dove la tessitura si fa veramente difficoltosa. Ci auguriamo di riascoltarlo presto, tanto è l’interesse che la sua prova ha fornito. Il baritono Massimo Cavalletti ha dato un gran rilievo alla figura del Rabbino David, conferendo al personaggio vigore e simpatia, muovendosi in scena con perizia e stabilendo immediatamente un feeling irresistibile con il pubblico. Qua e là l’emissione è parsa migliorabile – sottolineando come quota tecnica che la parte a lui affidata è tutta nel passaggio di registro – ma complessivamente il rilievo artistico della sua prestazione è stato altissimo.
Salome Jicia, una belcantista prestata in questo caso al verismo (ma non dimentichiamo che Giannina Arangi Lombardi fu una delle cantanti preferite da Mascagni), è stata una Suzel forse più matura di quanto siamo abituati a vedere, giocando su un timbro vagamente ombrato nei centri che si fa più limpido salendo nella zona acuta. Ha avuto bei momenti nel duetto con il Rabbino facendo intendere che in questo repertorio potrebbe avere dei risvolti fino a ieri impensati.
Tutto spigliatezza il personaggio en travesti dello Zingaro, affidato al mezzosoprano Teresa Iervolino, la quale si è impegnata tutta nel rendere credibile un personaggio che proprio credibile non è. Ha risolto bene le sue arie, riuscendo a conferire alla seconda di esse, “O pallida che un giorno mi guardasti”, anche un malinconico riflesso lunare. Molto bravi nelle loro parti di fianco il tenore Dave Monaco, il basso Francesco Samuele Venuti (ottima voce la sua, è parsa) e Caterina Meldolesi, bravissima e divertita in scena.
Appunto la scena. La regia di Rosetta Cucchi ha trasportato l’azione dall’Alsazia originale all’America di una comunità jewish con qualche cambio anche nel testo cantato. La trasposizione non è dispiaciuta, ma una sovrabbondanza di gags, invenzioni, rumori di scena, gridarelli et coetera in fondo è risultata distraente. Rimane la simpatia generale del lavoro, e qualche scena risolta con maestria, come il duetto delle ciliegie, che potremmo prendere ad esempio di una conversazione applicata al canto, nello stile più proprio di quest’opera. Ma il merito più grande di questa regia è stato quello di far risaltare il significato positivo, giovanile, fresco di quest’opera e la gioia dei bambini in scena. Non è poco specie di questi tempi.
Scene e costumi usciti da un film coppoliano di Gary McCann, terribile parrucca di Suzel enclosed. Luci di Daniele Naldi.
Successone per tutti, con un gran coinvolgimento della parte più giovane degli spettatori. Alla luce di questo bel risultato ci aspetteremmo adesso un impegno del Teatro del Maggio su qualche titolo del Mascagni più maturo.
Prima dello spettacolo il sovrintendente Alexander Pereira è apparso in proscenio con alcuni rappresentanti delle maestranze per esprimere solidarietà con il popolo ucraino ed auspicare la fine immediata delle ostilità, quando purtroppo i bombardamenti su Kiev avevano luogo. Comunicazione gradita, al quale aggiungiamo il pensiero che il messaggio del teatro sia sempre di pace, d’arte e di fratellanza.
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